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Barbara Buttinger-Förster

Parlare in forma propria delle cose dell’anima.
(Kandinsky)

da: Hubert Gaisbauer

Tante opere di Barbara Buttinger-Förster a prima vista stupiscono. Con forza arcaica si oppongono al visitatore (sì, a lui).
Morte e vita, giorno e notte. Grembo materno. Vulva, l’Origine du Monde. Stigmate. Madri scure che nutrono, sanguinanti nel grembo.
Poi maschere, maghi, figure spettrali, spesso con braccia alzate e mani divaricate. Salutano? Chiedono aiuto? Mettono in guardia da qualcosa?
Una sagoma di bambino e un cefalopoda che dalla luce fissa il buio.
Poi coppie: uomo-ombra e donna-luce, preghiere del cuore, teneramente, notturno.
Poi la donna e la bestia. Innocente e affine. Molto prima del peccato originale – oppure già dopo la redenzione?
Il visitatore (sì, lui) ha bisogno di tempo, si avvicina gradualmente, il turbamento si placa. Ciò che sembrava ripugnante diviene attraente. Poiché sommessamente i dipinti prendono voce. Allora il visitatore perde la paura di “non capire”. O di capire male. Entra in un rapporto amichevole con i dipinti, ci si saluta alla mattina. “Parla con noi” dicono, “noi ti ascoltiamo. Non è affatto possibile pensare o dire una cosa sbagliata. Noi ci conosciamo da tempo, ricordati!”
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Abitualmente (brutta abitudine) parlando o scrivendo di opere d’arte si cerca di classificarle, di determinare origine, genere e categoria. E’ considerato un approccio serio. Le opere di Barbara Buttinger-Förster giustamente si oppongono a questo metodo, ammettono però associazioni: con gli espressionisti “Ponte”, con Nolde, Alechinsky, sì, anche con Basquiat e Dubuffet. Viene in mente il termine Art Brut (artespontanea), concetto usato spesso in modo non  appropriato per arte outsider e perciò da evitare per il momento. Certamente le opere di Barbara Buttinger-Förster sono spontanee e eruttive, ma non solo, sono assolutamente da considerare al livello dell’arte contemporanea (se ciò rappresenta una legittimazione). Inoltre sta nella facoltà di ogni artista “di realizzare le cose ignorando l’esistenza di precursori pur
sapendo che mille precursori sono contro di me” (Jean Dubuffet).
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I quadri di Barbara Buttinger–Förster non raccontano storie, ma parlano di condizioni. Sono sguardo e specchio. Negano ogni spazialità. Tutto è primo piano; niente è spaziale, ma lo spazio è tutto. Utero, liquido amniotico, luce fioca, caverna.
Il rosso sembra più dominante che in realtà lo é. Il rosso-cuore, il rosso-sangue.

Il rosso vita. Vitalismo: sregolato. Sacramentalità nuda e cruda, interiorità rude,

non quell’esoterismo lieve-surreale che troppo spesso finge spiritualità

femminile.
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La pittura di Barbara Buttinger-Förster non mira all’effetto delle opere - non vuole in prima linea provocare. Ciò che colpisce è quella necessità interiore, senza pietà verso se stessa e senza pietà verso il visitatore. Stupisce solo fintanto che si riconosce in ciò la memoria del pre-conscio viva in “tutta l’umanità” e in “tutti i tempi”.
Arte autentica è e sarà sempre memoria collettiva per tutto ciò che è passato e per tutto ciò che sarà. Trae i suoi fili dalla tessitura della storia di tutta l’umanità. È la “Formula-Pathos” (Aby Warburg) senza tempo per dolore, morte e preghiera, per amore, sacrificio e danza. Dalle preistoriche pitture rupestri alle rappresentazioni di oranti nelle catacombe paleocristiane fino agli spettrali autoritratti neri di Jean-Michel Basquiat. È presentimento del terribile ed attraente numinoso, di tutto ciò che  fa rabbrividire ma anche di tutto ciò che lascia sperare. Questa è la pretesa dell’arte autentica.
Può darsi che qualcuno si trovi davanti ad arte autentica e dica: Questo lo so fare anch’ io! Se ci prova deve riconoscere che la sua affermazione è assolutamente fuori luogo. Arte esige un viaggio interiore, premessa sanzionata da Kandinsky, Dubuffet e tanti altri artisti. In anteprima andare a fondo, perché solo dopo conosciamo a fondo e non siamo persi (Ingeborg Bachmann).
Il pittore, filosofo e poeta Jean-Michel Atlan (1930 – 1960), un importante promotore dell’arte moderna negli anni quaranta e cinquanta del 20° secolo, ammise in un discorso poco prima della sua morte: “Non dei musei ho imparato a dipingere, ma dagli sciamani”.
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